Nei libri dedicati alla flipped classroom, il nome di Eric Mazur è uno di quelli in cui ci si imbatte con estrema facilità. Professore di Fisica Applicata ad Harvard, egli è stato infatti tra i primi, in ambito universitario, a porsi il problema di come "capovolgere" i tempi canonici dell'intervento didattico, scanditi solitamente dal dualismo lezione in classe / compiti a casa. Nel 2013 Mazur ha rilasciato un'interessante intervista alla rivista online EvoLLLution, la quale ospita solitamente approfondimenti sul mondo dell'università statunitense. Nell'articolo intitolato Flipped classroom redefine the role of educators, il professore di Harvard non solo ha svelato da dove prende le mosse la sua "rivoluzione didattica", ma ha anche delineato i tratti di quello che deve essere il ruolo dell'insegnante nella società dell'informazione del XXI secolo. In questo mio post, ho deciso di tradurre dall'originale uno stralcio di questa lunga intervista, per fornire ulteriore materiale alla discussione che ogni tanto si anima nel mondo dell'istruzione italiana su quella che da noi si è deciso di chiamare classe capovolta. Come apparirà dalle sue stesse parole, Eric Mazur ha il merito di ricollegare la novità della flipped classroom ad una tradizione didattica di lungo corso: precisamente quella viva nelle facoltà di Medicina e di Legge ad Harvard, dove l'attività didattica basata sui cosiddetti case studies ("studi di caso") già forniva nel passato un approccio pragmatico all'insegnamento o, detto in altri termini, improntato ad una forma di apprendimento attivo. Nello stesso tempo l'interesse che questa intervista può suscitare nel lettore consiste a mio avviso nel fatto che, pur non nascondendo la novità rivoluzionaria rappresentata dalle cosiddette tecnologie digitali nella didattica, Mazur non ne fa un feticcio (un rischio invece sempre presente, come tentavo di sottolineare nel mio post La videolezione: un mito da sfatare), ma inserisce il digitale all'interno di un percorso storico di evoluzione della cosiddetta information technology che parte dalla prima grande rivoluzione tecnologica dell'era moderna (quale fu l'invenzione della stampa a caratteri mobili) e trova compimento nell'era Internet. L'invenzione di Gutenberg, da par suo, aveva già scardinato il vecchio sistema delle università medievali (con l'insegnante al centro della scena e i clerici seduti a prendere nota); tuttavia il libro a stampa era stato usato prevalentemente dagli studenti "in maniera passiva", ovvero come unico strumento in grado di dare senso a quanto accadeva nell'aula. Un rischio, quest'ultimo, ben presente ancora oggi: in una fase storica in cui l'effetto wow di molti edu-tools fa perdere di vista la reale efficacia dell'intervento didattico. In definitiva, con le sue parole Mazur sembra dirci: d'accordo le videolezioni online, Internet ecc. sono una gran bella cosa, in grado di imporre con ancora maggior forza la necessità per il docente di ridefinire il suo ruolo, tuttavia ciò non legittima i toni palingenetici usati da alcuni per promuovere la cosiddetta classe capovolta. Quando lei ha iniziato nel 1991 ad utilizzare la flipped classroom, cosa ha assegnato ai suoi studenti da fare come compito per casa? Si trattava di una registrazione audio oppure di qualcosa di un po' più interattivo come un video?
Ho utilizzato la più grande invenzione esistente nella tecnologia dell'informazione: il libro. In breve, i miei studenti dovevano studiare il libro di testo prima della lezione, invece di spiegarglielo io in classe. Di fatto, molte persone pensano che la flipped classroom consista nell'avere studenti che guardano a casa delle video lezioni. In realtà non c'è bisogno di alcuna video lezione. Anzi, la maggior parte delle video lezioni sono noiose ed inutili come le lezioni dal vivo, perché tu non puoi fermarti a pensare. Certo, puoi spingere il tasto pausa, ma davvero in pochi lo fanno. Nella realtà, la maggior parte degli studenti, quando guardano le lezioni online, spingono il tasto di riproduzione a velocità aumentata per finirlo più velocemente, invece che più lentamente. La cosa buona della lettura, invece, è che puoi sempre chiudere il libro per un momento e fermarti a pensare. In ogni modo, quello che voglio far notare è che l'idea della flipped classroom è molto più vecchia di quello che la maggioranza delle persone crede. Se si torna indietro nella Harvard degli inizi del Novecento, precisamente nelle facoltà di Legge, a quel tempo si era iniziato ad applicare il metodo dello studio di caso, che io ritengo sia, in un certo senso, una prima applicazione della flipped classroom. Invece di insegnare legge agli studenti, i professori insegnavano "la pratica della legge", facendo in modo che gli studenti arrivassero in classe dopo aver letto per proprio conto i casi di studio e discutendo poi con loro in classe i casi studiati. Pertanto penso che non ci sia niente di nuovo; certo, l'espressione flipped classroom a quel tempo non veniva usata, ma il metodo dello "studio di caso" è, in un certo senso, una delle prime applicazioni della flipped classroom. Quando iniziai a fare quello che poi ho fatto, non ho mai parlato di flipped classroom. L'ho chiamata piuttosto "Istruzione tra pari" ed ho sostanzialmente fatto questa considerazione: "Bene, l'insegnamento consiste in due step: nel primo, tu hai bisogno di trasferire informazioni; nel secondo, lo studente ha bisogno di fare qualcosa con le informazioni ricevute (costruire modelli concettuali, dargli senso, cercare di applicare quelle informazioni e quella conoscenza alla realtà). Nella stragrande maggioranza dei corsi strutturati in modo tradizionale, particolarmente nelle conferenze, il focus è tutto sul primo step: il trasferimento delle informazioni. E, fondamentalmente, con la sola eccezione forse delle facoltà umanistiche e in quelle di legge ed economia, i professori sono completamente assorbiti - ed ora sembrerò forse un tantino sprezzante, ma c'è una profonda verità in questo, almeno penso - nel trasferire informazioni ripetendo a pappagallo pagine stampate. Così, nel 1990 decisi che... avrei (e a quel tempo non ho affatto usato la parola "flipped"), stavo dicendo, a quel tempo decisi che avrei invertito l'approccio. Invece di fare il primo step, cioè il trasferimento delle informazioni, in classe, lasciando così che gli studenti comprendessero quelle informazioni al di fuori della lezione...io avrei piuttosto focalizzato la mia attenzione sul secondo step, lasciando che il trasferimento delle informazioni avvenisse prima della lezione in presenza. Così chiesi ai miei studenti di leggere le mie dispense e note per la lettura del libro di testo: in classe io li avrei aiutati a comprendere il significato di tutto quello che avevano letto, ponendo loro domande-guida piuttosto che limitarmi semplicemente a spiegare a parole.
0 Commenti
L'isola di Ponza nell'immaginario comune è il correlativo oggettivo di tante cose (quali, ad esempio, svago, relax, riposo); tutte facilmente catalogabili nel campo semantico della vacanza. Cosa avverrebbe però se a queste piacevoli parole ne associassimo per contrasto altre quali confino, dittatura, controllo, schedatura? Di certo la piacevolezza del nostro primo fantasticare verrebbe rovinata dall'evocazione di un periodo buio della storia italiana, quale fu quello del ventennio fascista. Difatti, tra il 1928 e il 1943, Ponza è stata, al pari della più nota e vicina isola di Ventotene, colonia confinaria: ovvero luogo deputato all'isolamento e al controllo di individui ritenuti pericolosi dal regime. Nell'arco di un quindicennio, l'isola ha ospitato numerosi oppositori politici di varia estrazione sociale e fede politica: dal socialista Sandro Pertini al comunista Giorgio Amendola, dal legionario dannunziano Mario Magri (poi tragicamente trucidato alle Fosse Ardeatine) al Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani. E questo per fermarsi solo ad alcuni dei nomi più noti negli annali della storia; accanto ad essi, tuttavia, ne restano tanti altri oggi finiti nell'oblio. Al turista che oggi si muova spensierato per l'isola, di questo triste passato non gli arriverà quasi eco alcuna. Eppure, per dirla con Proust, "il passato non solo non è fugace, ma resta fermo" per quegli occhi, si vorrebbe aggiungere, che vogliano e sappiano cogliere le tracce che esso, il passato, ha disseminato in mezzo al nostro presente. E questa sorta di sguardo è proprio quello che la mia collega Rita Bosso, ponzese di origine nonché scrittrice e cultrice di memorie locali, ha saputo nel tempo coltivare, riuscendo a tirar su da fonti di varia natura (pubblicazioni, foto d'epoca, memorie orali ecc.) un discreto archivio personale sulla storia del confino a Ponza. All'inizio dell'anno scolastico Rita, conoscendo il mio interesse per la storia e le nuove tecnologie digitali, mi ha avvicinato assieme al mio collega di informatica Massimo Pescatori. Rita aveva un'idea ben chiara nella mente: realizzare un' app per dispositivi mobili che consentisse di localizzare, nell’attuale tessuto urbano, i luoghi del confino, raccontando allo sprovveduto visitatore (o anche all'ignaro abitante del posto) le storie dei confinati. Un'idea bellissima e originale, a cui inizialmente (come spesso mi capita) ho posto una serie di resistenze, inerenti la fattibilità del prodotto con le nostre risorse e competenze. Fortunatamente la caparbietà della mia collega ha avuto la meglio; e questo post sta appunto qui a testimoniare un'impresa scolastica in cui ho potuto mettere alla prova un modello di apprendimento per progetti (project-based learning), che ben si sposa con un'attività di alternanza scuola-lavoro.
Inquiry-based teaching, project-based teaching, flipped classroom ecc. Numerose sono le tecniche di insegnamento di cui un insegnante può oggi servirsi per costruire la sua "lezione"; un vasto campionario in grado di fornire al docente, che ne avesse tempo e voglia di sperimentazione, strumenti per la costruzione di situazioni sempre nuove di apprendimento. Tra queste tecniche o strategie didattiche quella che, negli ultimi due anni (almeno in Italia), ha suscitato sempre più interesse è sicuramente la cosiddetta classe capovolta (flipped classroom): una strategia d'insegnamento che, volendo semplificare, consiste nel "capovolgere" i tempi dell'apprendimento: a casa il giorno prima lo studente studia la lezione su materiali predisposti dall'insegnante (solitamente videolezioni, ma non solo); il giorno dopo in classe si fanno i compiti (di solito attraverso attività di natura laboratoriale). Questa diversa organizzazione dei tempi di apprendimento consentirebbe all'insegnante, da un lato, di avere in classe studenti già "preparati" sulla lezione, dall'altro permetterebbe allo studente di svolgere in classe (sotto la guida del docente e dei propri compagni) compiti che diversamente si troverebbe a svolgere da solo. Alla luce di ciò, la classe capovolta appare (almeno nelle intenzioni di chi ha iniziato a praticarla) come un "contenitore" in grado di racchiudere in sé tutta una serie di tecniche didattiche. Quali sono le origini di questo approccio apparentemente dalla portata rivoluzionaria? Nel suo libro Fare didattica con gli EAS (Editrice La Scuola, 2013), Pier Cesare Rivoltella ricostruisce brevemente la storia della flipped lesson, individuando in Eric Mazur, professore di fisica ad Harvard, uno dei suoi primi sperimentatori, fino ad arrivare in anni più recenti alla diffusione delle comunità di flipped teachers negli Stati Uniti e in Europa (inclusa l'Italia, con la costituzione dell'associazione Flipnet). Nel filo ideale che tiene assieme lo sviluppo di questo modello d'insegnamento, l'elemento preponderante che emerge e diventa oggetto d'interesse soprattutto dei mass media è l'associazione della classe capovolta con l'uso dei nuovi strumenti messi a disposizione dalla rivoluzione digitale: classi virtuali, edu-apps, ma soprattutto videolezioni (cfr. la recente inchiesta de La Repubblica). Questo binomio, tuttavia, nel mentre contribuisce a decretarne il successo nell'era dei "presunti" nativi digitali, dall'altro rischia però paradossalmente di ridimensionarne la portata innovativa: difatti, l'unica vera novità rispetto all'approccio costruttivista delle cosiddette pedagogie attive consisterebbe proprio nell'aggiunta delle nuove tecnologie (e di per sé non sarebbe cosa di poco conto, visto quanto lamenta l'ultimo Rapporto OCSE dell'ottobre 2015 in merito alla mancanza di una pedagogia che integri al meglio le TIC).
|
BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
Categorie
Tutti
|