In buona parte delle scuole in cui ho lavorato durante questi anni c'erano biblioteche ben fornite, ma deserte. Complice un servizio di prestito a singhiozzo (per mancanza di personale e/o per assenza di fondi), unito spesso a regolamenti interni pensati quasi per tenere lontani gli studenti, le biblioteche delle scuole in cui ho insegnato risultavano poco frequentate o tutt'al più utilizzate come parcheggio per studenti che non si avvalgono dell'ora di religione cattolica. Ma, al netto di impedimenti oggettivi, se anche le biblioteche scolastiche risultassero sempre aperte e ben funzionanti, ancora una volta forse risulterebbero deserte; e la responsabilità di questo andrebbe in parte imputata a noi docenti: spesso presi da una corsa ad ostacoli che risponde al nome di programma, - dove però a svolgere il ruolo di ostacoli risultano essere gli autori stessi e le loro opere, da passare in rassegna velocemente, in nome di un enciclopedismo che nel tentativo di abbracciare tutto lo scibile, si ritrova solo a stringere in una morsa se stesso, così che lo studente viene introdotto nel mondo della letteratura quale turista cui si vogliano mostrare i monumenti di un centro storico dai finestrini di un auto lanciata in corsa -, molti insegnanti non pensano alla biblioteca del proprio istituto come ad un ambiente da sfruttare per la promozione della lettura.
Tuttavia l’intento di questo post non è però quello di discutere di biblioteche e programmi, ma di raccontare un’esperienza che ho condotto durante quest’ultimo anno: parlo di libri e podcast o, mutatis mutandis, di ascolto e lettura (come già recitava il titolo di questo articolo); due delle competenze-chiave della disciplina scolastica Italiano, ma soprattutto due delle competenze trasversali della cosiddetta educazione linguistica. Ma veniamo al racconto dell’esperienza.
A partire dall’estate del 2015, da lettore affezionato dell'inserto Domenica de Il Sole 24 ore, ho iniziato a raccogliere i libri della collana editoriale Racconti d’autore: si tratta di opere di narrativa appartenenti ai generi più diversi, - da un classico del giallo come Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle al Verga delle Novelle rusticane, dal Cuore di cane di Michail Bulgakov ai racconti poetici della scrittrice statunitense Jamaica Kincaid - , ma comunque tutte unite da una stessa caratteristica: opere brevi e di dimensioni modeste, al punto da poter stare tutte comodamente dentro una scatola di scarpe (e l’esempio non è casuale, come scoprirete a breve). Con il passare dei mesi, diciamo che di questi libriccini ne ho messi da parte un bel po'. Così che un bel giorno, poiché da tempo mi dicevo che avrei dovuto dare più spazio alla lettura integrale di opere in classe, ho pensato: perché non portare i miei nuovi libri a scuola e metterli a disposizione degli studenti? Si poneva a questo punto il problema di come traslocare la mia piccola biblioteca. La soluzione è venuta semplice alla mia immaginazione: chiuderla dentro una scatola di scarpe, creando così una sorta di biblioteca itinerante con annesso registro, dove gli studenti avrebbero dovuto annotare il loro nome e cognome, il titolo del libro scelto, data del prestito e della riconsegna. E così di fatto è stato. In ultimo, con l'aiuto di un mio studente, la "fu scatola di scarpe" ha assunto un aspetto alquanto elegante (cfr. fig.1-2), così come l'organizzazione del mio Istituto per aule tematiche, ciascuna fornita di un armadio per la conservazione di materiali didattici, mi ha consentito di trovare a fine giornata un luogo dove custodire la mia piccola biblioteca.
Fig. 1 e 2 - La scatola della Biblioteca di classe
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Inquiry-based teaching, project-based teaching, flipped classroom ecc. Numerose sono le tecniche di insegnamento di cui un insegnante può oggi servirsi per costruire la sua "lezione"; un vasto campionario in grado di fornire al docente, che ne avesse tempo e voglia di sperimentazione, strumenti per la costruzione di situazioni sempre nuove di apprendimento. Tra queste tecniche o strategie didattiche quella che, negli ultimi due anni (almeno in Italia), ha suscitato sempre più interesse è sicuramente la cosiddetta classe capovolta (flipped classroom): una strategia d'insegnamento che, volendo semplificare, consiste nel "capovolgere" i tempi dell'apprendimento: a casa il giorno prima lo studente studia la lezione su materiali predisposti dall'insegnante (solitamente videolezioni, ma non solo); il giorno dopo in classe si fanno i compiti (di solito attraverso attività di natura laboratoriale). Questa diversa organizzazione dei tempi di apprendimento consentirebbe all'insegnante, da un lato, di avere in classe studenti già "preparati" sulla lezione, dall'altro permetterebbe allo studente di svolgere in classe (sotto la guida del docente e dei propri compagni) compiti che diversamente si troverebbe a svolgere da solo. Alla luce di ciò, la classe capovolta appare (almeno nelle intenzioni di chi ha iniziato a praticarla) come un "contenitore" in grado di racchiudere in sé tutta una serie di tecniche didattiche. Quali sono le origini di questo approccio apparentemente dalla portata rivoluzionaria? Nel suo libro Fare didattica con gli EAS (Editrice La Scuola, 2013), Pier Cesare Rivoltella ricostruisce brevemente la storia della flipped lesson, individuando in Eric Mazur, professore di fisica ad Harvard, uno dei suoi primi sperimentatori, fino ad arrivare in anni più recenti alla diffusione delle comunità di flipped teachers negli Stati Uniti e in Europa (inclusa l'Italia, con la costituzione dell'associazione Flipnet). Nel filo ideale che tiene assieme lo sviluppo di questo modello d'insegnamento, l'elemento preponderante che emerge e diventa oggetto d'interesse soprattutto dei mass media è l'associazione della classe capovolta con l'uso dei nuovi strumenti messi a disposizione dalla rivoluzione digitale: classi virtuali, edu-apps, ma soprattutto videolezioni (cfr. la recente inchiesta de La Repubblica). Questo binomio, tuttavia, nel mentre contribuisce a decretarne il successo nell'era dei "presunti" nativi digitali, dall'altro rischia però paradossalmente di ridimensionarne la portata innovativa: difatti, l'unica vera novità rispetto all'approccio costruttivista delle cosiddette pedagogie attive consisterebbe proprio nell'aggiunta delle nuove tecnologie (e di per sé non sarebbe cosa di poco conto, visto quanto lamenta l'ultimo Rapporto OCSE dell'ottobre 2015 in merito alla mancanza di una pedagogia che integri al meglio le TIC).
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BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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