C’è un libro uscito soltanto il 24 marzo scorso e che pure sta già facendo molto discutere negli Stati Uniti (e non solo) all’interno del mondo degli esperti di psicologia sociale, psicologia dell’adolescenza, scuola e social media. E dunque potrebbe certamente interessare anche insegnanti come me (e tra questi, in particolare, quanti si sono dedicati in questi anni al cosiddetto digitale declinato nell'ambito scolastico). Si tratta del saggio dello psicologo sociale Jonathan Haidt, The anxious generation (La generazione ansiosa). Il sottotitolo del libro è ancora più forte ed esplicito del titolo. In italiano dovrebbe suonare pressappoco così: Come il grande ricablaggio dell’infanzia sta causando un’epidemia di malattie mentali.
Non ho letto ancora il saggio, ma è nella lista delle molte cose che vorrei leggere (del resto, come diceva Troisi in Le vie del Signore sono finite: "Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere"). Perciò quello di cui adesso vi parlo, è quanto ho ascoltato qualche giorno fa in un interessante dibattito di un’ora pubblicato all’interno del podcast Conversations with Tyler. Nel podcast si confrontano lo stesso autore del saggio, ospite della puntata, con Tyler Cowen, autore di questo format audio che ha come obiettivo dichiarato quello di ridurre il gap tra la ricerca universitaria e l'opinione pubblica.
Si tratta dunque di un dialogo serrato, in cui possiamo sentire Haidt sostenere le sue tesi e Tyler Cowen obiettare a molte di esse, svolgendo così il duplice ruolo scomodo di padrone di casa ed avvocato del diavolo. Uno scambio di battute di alto livello, insomma; un livello a cui spesso i new media disabituano, in particolare i social (posso dirlo, credo, da frequentatore assiduo, sempre più annoiato dal livello di autoreferenzialità che si respira lì dentro). Veniamo però al dunque: cosa sostiene Haidt? E quali sono le principali obiezioni fatte alle sue conclusioni? Haidt sostiene, anzitutto, che il suo non è un libro sui social né sul digitale, piuttosto è un libro sull’infanzia, per un semplice motivo: noi abbiamo preso un'infanzia sana, normale, basata sul gioco di cui tutti i mammiferi hanno bisogno, e l'abbiamo scambiata con un'infanzia basata sul telefono, nello specifico uno smartphone. Per lo psicologo sociale lo smartphone, sin dalla sua introduzione nel 2012, ha progressivamente ridotto ed addirittura bloccato l’esperienza necessaria alla crescita delle competenze sociali, perché si riduce sostanzialmente il tempo di stare con gli altri, nell’esperienza face to face. Dice testualmente nel podcast: "Una volta che i bambini hanno avuto gli smartphone intorno al 2012, trascorrono meno tempo, ad esempio a pranzo, non giocano tanto tra loro; sono sui loro telefoni. Tra una lezione e l'altra non parlano nel corridoio; sono sui loro telefoni. Il telefono è stato devastante per il tempo trascorso con gli amici a scuola, per il tempo con gli amici fuori scuola e per il tempo trascorso ad ascoltare gli insegnanti a scuola perché tutta l'attenzione va sempre al telefono, la maggior parte dell'attenzione". Quella di Haidt in fine dei conti, riassunta così, sembrerebbe la solita geremiade di un boomer contro le nuove tecnologie. E adesso vedo anche già alcuni insegnanti storcere il muso (sono i cosiddetti "innovatori", tra i quali anch'io potrei essere annoverato) e altri annuire trovando conferma ad alcuni dei propri pregiudizi verso le nuove tecnologie in ambito educativo. Questa volta però la differenza, rispetto alla filippica di una Mastrocola di turno, sta nel fatto che, nel suo saggio, da psicologo sociale, l'autore sostiene la sua analisi attraverso numerose indagini statistiche indipendenti basate sulla correlazione tra comparsa dello smartphone nel 2012 e aumento dei fenomeni di disagio mentale tra gli adolescenti (in particolare, le adolescenti). L'ospite della puntata ci tiene infatti a precisare che il suo non è un attacco indiscriminato ad Internet: "Abbiamo bisogno di Internet. Internet è fantastico. Ricordi com'era negli anni '90 quando lo scoprimmo tutti? È stata una delle cose più grandiose che abbiamo mai visto. Non ha danneggiato la salute mentale. È stato positivo per la democrazia”. Internet però non deve essere confuso con i social media, precisa: "Sto dicendo che i social media, avere un account in cui ti viene fornito materiale, ti vengono forniti contenuti da algoritmi, non è appropriato per i bambini. L'età dovrebbe essere a 16 anni”. Lo psicologo statunitense non si limita al lamento, ma sul piano operativo propone quattro norme che potrebbero iniziare a risolvere il problema:
Fin qui quanto sono riuscito a riassumere di questo interessante dibattito (e riassumerlo un dibattito orale significa inevitabilmente perderne la natura dialogica di "botta e risposta"). Tuttavia la questione e la polemica non sono chiuse. Lo stesso autore del libro in questi giorni ha risposto ad altre più insidiose obiezioni, in particolare a quelle che considerano la sua correlazione come fallace e spuria, come emerge ad esempio dalla recensione pubblicata dalla prestigiosa rivista Nature). Non mi resta adesso che attendere la lettura del saggio The anxious generation, sempre che trovi il tempo.
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Quando si parla di fake news o post-verità riesce facile a molti individuare le cause che spiegano perché alcune persone vengono gabbate dalla disinformazione che circola per il web. Si tirano in ballo, in questi casi, i “pregiudizi di conferma” (bias of confirmation), l’analfabetismo funzionale, il pensiero magico e via di questo passo, spesso nella credenza che siano gli “incolti” a cedere alla disinformazione, mentre in realtà a cadere vittima di questi tranelli potrebbe essere ciascuno di noi (come confermato, in Italia, da un'indagine Demos del 2017). Ma cosa accade se, invece di inquadrare le manchevolezze dei consumatori di disinformazione online, si prova a guardare all’opposto a quelli che non si lasciano menare per il naso, cioè a chi sa valutare correttamente la fondatezza di un’informazione trovata online?
Proprio nell’intento di tracciare il profilo di questi “competenti del web”, nel 2017 l’università di Stanford ha condotto un’indagine basata sull'analisi di tre gruppi di controllo, così costituiti:
Ho già parlato in un post di qualche tempo fa di Edutopia: a mio avviso, uno dei migliori siti internazionali dedicati al mondo dell'istruzione. Il suo pregio maggiore è quello di saper comunicare in modo semplice non solo le evidenze raccolte dalle indagini sperimentali condotte in ambito pedagogico, ma anche quello di saper diffondere le "buone pratiche" di insegnanti impegnati in quella che da noi un tempo si chiamava ricerca-azione. L'altro giorno Edutopia ha pubblicato un video dedicato alla comprensione di quel nuovo ambiente che, causa gli effetti devastanti della pandemia COVID, è diventato quasi imprescindibile per la nostra azione didattica: la classe virtuale. In un articolo di qualche anno fa pubblicato per la rivista Bricks, avevo già parlato dell'esperienza che andavo conducendo in classe con uno dei primi social didattici; come dicevo, la classe virtuale appariva come "un valido ausilio per una didattica orientata questa volta non a superare lo spazio fisico e temporale dell’aula, ma semplicemente ad integrarlo con la rete". Ma cosa succede se la didattica non può esercitarsi più nello spazio fisico dell'aula e deve affidarsi esclusivamente all'ambiente online? Cosa si perde, ad esempio? Come mostra questo recente video diffuso da Edutopia, a scomparire sono tutti quei feedback essenziali che costituiscono un po' l'anima della comunicazione in classe. Parliamo di quei preziosi segnali che si esprimono nel linguaggio non verbale: lo sbadiglio, l'alzata di sopracciglio oppure l'illuminazione improvvisa nel volto dello studente preso dalla tua lezione. E' evidente che questo nella distanza sia quasi impossibile da sostituire. Perciò bisogna pensare ad un sistema diverso, pur nella consapevolezza che si tratta di un surrogato dettato dalle necessità dei tempi. Il suggerimento che Edutopia ci dà è quello di lavorare affinché si possano ricevere feedback costanti e mediati attraverso strumenti semplici quali, ad esempio, un Google Moduli. Potremmo pertanto chiedere ai nostri studenti di rispondere, ogni tanto, a domande aperte (o su scala Likert) del tipo:
"La nostra reazione convenzionale a tutti i media, A chi gli chiedeva che fine avrebbero fatto i suoi saggi, nel caso in cui la ricerca del futuro avesse sconfessato la sua teoria della ideologia tripartita degli Indoeuropei, il famoso storico delle religioni francese Georges Dumézil, che su quella teoria aveva edificato tutta la sua analisi dei miti e delle strutture sociali delle società antiche, rispondeva: “Semplice, basterebbe spostarli dalla sezione della saggistica a quella della fiction”. Per fortuna del suo autore, I libri di Dumézil possono trovare comodamente posto ancora oggi nel settore della saggistica, mentre sono al contrario i libri dei suoi detrattori ad essere via via scomparsi dai cataloghi delle più prestigiose collane editoriali. Chissà se Marc Prensky, a distanza di soli vent’anni dalla teorizzazione sui cosiddetti nativi digitali, potrà vantare una fortuna analoga; oggi che numerose indagini di pedagogia sperimentale hanno sconfessato ciò che molti, senza il conforto di indagini evidence-based, già al tempo, nel 2001, avevano intuito. Infatti, con buone probabilità, questo scrittore statunitense (e consulente per il mondo della formazione, come ama presentarsi egli stesso sul suo sito personale) potrà vantare unicamente di aver coniato un’espressione che riscuote grande fortuna ancora oggi negli articoli sul mondo della scuola, perché per il resto la validità euristica delle sue speculazioni mostra già da tempo crepe da ogni parte.
Niente educazione civica a scuola, C'è un libro di scuola che conservo intatto dai tempi del liceo, nonostante siano passati più di vent'anni: è il libro di educazione civica. Ancora oggi appare perfettamente integro: né una pagina spaginata né un'orecchia su una pagina. Forse ce lo fece acquistare la professoressa di storia del biennio, oppure il professore di storia e filosofia del triennio, per poi non utilizzarlo mai. Ne sono quasi certo, perché ricordo precisamente il giorno in cui all'università, in tempi in cui compulsare Wikipedia non era possibile, al fine di rileggermi alcuni articoli della Costituzione citati nel manuale di storia contemporanea che stavo studiando, lo liberai finalmente dall'involucro di cellophane che lo teneva prigioniero. Sia chiaro, di tale prigionia non ne faccio una colpa ai miei insegnanti di allora, peraltro professionisti molto scrupolosi e preparati. Sicuramente, - posso dirlo solo oggi che a rivestire quel ruolo ingrato ci sono io -, presi da quella malattia che contagia ancora il corpo docente italiano, ovvero l'idea di dover insegnare "tutta la storia" possibile, ingozzandosi e ingozzando gli alunni con palate di date e nozioni, avranno pensato di dover sacrificare qualcosa: e questa scelta ingrata sarà ricaduta sulla povera educazione civica.
Questi ricordi probabilmente riaffioreranno quasi simili nella memoria di molti miei coetanei, in questi giorni in cui a scuola si attende il pronunciamento del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, in merito all'avvio nel corrente anno scolastico della sperimentazione della nuova Educazione Civica. Si tratta di un'attesa che molti insegnanti vivono con ansia e terrore, perché, com'è d'uso sin dall'alba della nostra repubblica, anche le migliori intenzioni possono partorire mostri, una volta uscite dalle inclite stanze di viale Trastevere e pompate lungo le arterie ostruite delle scuole italiane. |
BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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