Il nuovo governo sta mantenendo fede ai suoi impegni elettorali; soprattutto a quelli sottoscritti dal Movimento 5 Stelle con quella fetta di docenti che ha lusingato al motto di cancelliamo la buona scuola. Alla luce, infatti, della nuova legge di bilancio, una delle principali novità della legge 107, l'alternanza scuola-lavoro, appare ampiamente ridimensionata. Quali le motivazioni? Qui entriamo nel non detto. Avendo inserito questa, ed altre norme sulla scuola, non in un disegno di legge organico, ma all'interno di una legge di bilancio, le motivazioni non possono che apparire come quelle di una "razionalizzazione della spesa" di tremontiana memoria, cioè dei tempi in cui con la cultura non si mangiava. Eppure, le motivazioni che si celano dietro questa scelta, così gradita nel mondo della secondaria di secondo grado, sono di natura più profonda ed ideologica. L’alternanza scuola-lavoro, infatti, era entrata di diritto fin da subito nell’elenco delle mostruosità che un certo modo di fare giornalismo italiano ama collezionare sul mondo della scuola. Costretti a raccogliere pomodori nel meridione d’Italia o a fare fotocopie in un ufficio comunale, gli studenti italiani sembravano davvero inseriti in un girone infernale dedicato allo sfruttamento minorile. Questa rappresentazione, basata sulla cronaca o su indagini statistiche di portata limitata (si veda l'inchiesta su un campione di 4000 questionari presentata dalla Rete degli studenti medi), ha assunto nell'anno passato i contorni di una caricatura. Questo perché, come spesso accade dalle nostre parti, la strumentalizzazione di ogni cambiamento per motivi di partigianeria (in questo caso, la lotta senza quartiere alla L. 107 da parte di una fetta consistente del corpo docente italiano e di una parte dei suoi rappresentanti sindacali) porta ad ingigantire oltremisura le storture e le criticità (esistenti, non c’è dubbio) di un tentativo, tutto sommato giusto, di aprire la scuola alla società (e, se si volesse avere un pezzo d’autore di tale approccio, in grado di mettere assieme neoliberismo, padroni delle ferriere e sfruttamento minorile, esempio luminoso è quello fornito dal filosofo Diego Fusaro). Eppure analisi più equilibrate sul tema si potevano trovare. Giusto un anno fa il sociologo del lavoro Francesco Giubileo nel suo Alternanza scuola-lavoro in cerca di nuovi modelli, pubblicato sul sito lavoce.info, puntava il dito su alcuni punti critici dell'alternanza; tra i quali il maggiore, a mio avviso, è il diverso significato attribuito al concetto di “alternanza” dalle varie tipologie di istituto che compongono l’istruzione superiore italiana: si passa infatti dalla sua considerazione come un’utile occasione per l’ingresso diretto nel mondo del lavoro (propria degli istituti professionali e tecnici) ad una concezione (propria dei licei) dell’alternanza come strumento dal valore squisitamente educativo e formativo. Questa dicotomia, oltre ad essere uno specchio fedele della diversa “ragione sociale d’impresa” degli indirizzi di studio italiani, cela in realtà un diverso modo di considerare la “professione”, quale già nel 1916 il filosofo statunitense Dewey denunciava come esistente nel mondo scolastico dei suoi tempi. Prevale ancora l’idea che un’educazione veramente culturale o liberale non possa avere niente in comune, almeno direttamente, con questioni produttive A distanza di un secolo, infatti, se il noto filosofo statunitense si ritrovasse catapultato nella realtà dei licei italiani, ritroverebbe ancora davanti a sé un abito mentale che guarda all’occupazione pratica come ad una distrazione dalla speculazione o riflessione teorica propria della vera cultura; a tale forma mentis l’industria appare come un luogo deputato ad accogliere tutt’al più le genti meccaniche e di piccolo affare di manzoniana memoria. A nulla varrebbe a Dewey ribattere che l'industria ha assunto già da almeno due secoli una forte valenza tecnologica, la quale si esprime in macchinari che sono il risultato di scoperte avvenute in campo matematico, fisico, chimico ecc.; a nulla anche aggiungere che già da tempo sarebbe venuto il momento di fornire ai giovani una educazione che faccia conoscere "la base e la portata scientifiche e sociali" delle macchine e delle occupazioni presenti nel mondo del lavoro, per evitare che un domani quegli stessi giovani, privi di una adeguata cultura, "ricadano inevitabilmente al livello di appendici delle macchine che fanno funzionare". Dopo aver calato i suoi assi, il Nostro si scoprirebbe disarmato davanti all’incedere di una schiera di argomenti retorici che affondano in una tradizione ultracentenaria. E di questo esercito la punta di diamante è costituita dalla cosiddetta licealità: una sorta di qualità connaturata al liceo, da indossare come un abito ed in grado di produrre quella superiorità culturale (ma soprattutto sociale, verrebbe voglia di chiosare) che farà un domani il successo del giovane nel mondo lavorativo. Ma in cosa consiste questa presunta superiorità? Forse nel mito del latino che insegna il ragionamento logico (contro ogni evidenza empirica, quale già Vygotskij negli anni Trenta ne fornì dimostrazione)? Oppure nella filosofia, non intesa come pratica di pensiero, bensì centone di autori da passare in rassegna velocemente? Oppure nel più generale mito che tutti li racchiude: ovvero di una scuola che fornisce la cosiddetta cultura generale? Le risposte a questi dubbi, di certo, non potranno trovarsi all'interno di una legge di bilancio. La cosiddetta "cultura generale" consiste nel fatto di sapersi ricordare un sufficiente numero di cose inutili per evitare di far brutta figura in salotti in cui sia considerato necessario il saperle.
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BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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