Da alcuni anni in Italia si è diffuso un format televisivo di grande successo popolare, la cui ricetta prevede tre semplici ingredienti:
Questa premessa mi è d'aiuto non tanto per fornire ulteriori frecce all'arco di chi alimenta lo spirito anticasta del nostro Paese, quanto piuttosto per rivelare un modo sbagliato di concepire la competenza storica nel sentire comune e, ahimé, spesso anche a scuola. Colui che conosce davvero la storia ne conosce senza alcuna titubanza ed errore le date: questo è il messaggio che le trasmissioni televisive di cui sopra trasmettono allo spettatore. A questo punto qualcuno potrebbe interrompermi: "Ebbene, cosa c'è di male in questo? Non è forse vero che l'uomo di cultura queste date o nozioni le possiede saldamente?" Quando cerco di trovare una risposta a queste obiezioni, mi torna sempre in mente l'aneddoto che un grande uomo di cultura, cioè Guido Calogero (1904-1986), tra i fondatori del Partito d'Azione, oltre che tra i maggiori studiosi italiani di storia della filosofia antica, racconta in Scuola sotto inchiesta, attualissimo saggio del 1965 che raccoglie gli articoli che l'intellettuale scrisse sulla scuola originariamente per la rivista Il Mondo (e che i problemi che il saggio al tempo denunciava siano ancora attuali, a più di mezzo secolo di distanza, la dice lunga sui progressi fatti dal nostro sistema d'istruzione). Racconta Calogero:
"Poco dopo il mio arrivo a Londra come direttore di quell'Istituto italiano di Cultura un diplomatico di mezza età, evidentemente per controllare di prima mano la mia reale idoneità a quel posto, mi chiese a bruciapelo, in un ricevimento, se Carlo Magno fosse stato incoronato a Roma o ad Aquisgrana. Gli risposi subito: - Mio caro visconte, non chieda a me cose simili! Io non sono mai riuscito a ricordarmi nemmeno se Carlo Magno sia Carlo Quinto o Carlo Ottavo -. [...] D'altra parte, che colpa poi aveva, quel povero visconte, a concepire a quel modo la "cultura generale", se persino per il concorso per entrare in diplomazia lo avevano costretto a studiarsi a memoria, e quindi naturalmente anche a dimenticare, un'enorme quantità di notizie storiche?". Con buone probabilità qui Calogero, tutto preso dal suo amabile spirito dissacratore di quella che egli chiamava al tempo la scuola dell'onniscienza, esagera. Tuttavia, quand'anche tenessimo per buona la visione di chi identifica la conoscenza della storia nella memorizzazione di fatti e date, allora, se è vero, come recita un vecchio adagio, che ogni popolo ha la classe politica che si merita, a questo punto davvero l'ignoranza di molti politici italiani sarebbe un perfetto specchio dei suoi elettori, come confermano due recenti indagini.
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L'ignoranza genera, Di recente una studentessa, delusa dal voto che le avevo assegnato in un compito in classe, mi ha confessato con aria triste: "Il mio problema è sempre l'insicurezza", "A volte anche il mio", le ho risposto e, dopo aver indossato i panni del moralista, ho aggiunto: "Mi consolo però pensando che, peggio dell'insicurezza, ci sia solo la supponenza". Queste parole, così apparentemente profonde, non mi derivavano da qualche testo sapienziale del tempo antico o da una raccolta di aforismi celebri, bensì da una lettura recente che avevo fatto. Mi riferisco all'articolo pubblicato sul New York Times il 20 marzo scorso, dal titolo emblematico Why high-class people get away with incompetence (Perché i ricchi se la cavano con l'incompetenza), in cui vengono divulgati i risultati di una ricerca di psicologia sociale, pubblicata originariamente sul Journal of Personality and Social Psichology. Gli autori della ricerca, partendo da un assunto di verità noto fin dai tempi dell'Ecclesiaste, e cioè che chi nasce ricco tende a perpetuare i propri privilegi, dimostrano attraverso quattro esperimenti quale sia lo strumento di cui le classi che occupano i più alti gradini della scala sociale si servono per raggiungere questo obiettivo: sopravvalutare se stessi. In uno degli esperimenti, infatti, i ricercatori hanno messo in atto la simulazione di un'intervista di lavoro con 230 studenti dell'Università della Virginia, su cui avevano raccolto dati inerenti la loro condizione socio-economica. Nella finta intervista venivano poste le stesse domande a tutti gli studenti, videoregistrando le risposte. Successivamente le registrazioni venivano sottoposte al giudizio di un gruppo di estranei, i quali dovevano anche valutare la performance degli studenti. Sorprendentemente, la giuria di esterni mostrava un giudizio ampiamente positivo proprio per quelle persone che avevano sovrastimato la loro reale cultura generale. In sostanza, la presunzione veniva vista come competenza. Gli incompetenti tendono a non essere consapevoli della loro incompetenza Difficile non pensare, dopo aver letto i risultati di questa ricerca, al famoso effetto Dunning-Kruger, così come formulato dallo psicologo David Dunning e dal suo allievo Justin Kruger nel 1999: "quando le persone sono incompetenti nelle strategie che adottano per ottenere successo e soddisfazione, sono schiacciate da un doppio peso: non solo giungono a conclusioni errate e fanno scelte sciagurate, ma loro stessa incompetenza gli impedisce di rendersene conto" (citato in Antonio Sgobba, ? - Il paradosso dell'ignoranza da Socrate a Google, Il Saggiatore 2017, p. 106). Questa mancata consapevolezza appare, alla luce di questa nuova ricerca di psicologia sociale, come un elemento di distinzione di classe, anzi un fattore vincente nei gruppi sociali (e dunque anche in quella microsocietà che è un'aula scolastica), dove quella presunzione può esprimersi agli occhi inesperti degli altri membri del gruppo in molte forme (verbali e non-verbali): tono della voce, comportamento ecc. Tuttavia, come suggerisce uno degli stessi autori dell'indagine, l'esposizione costante dei membri del gruppo a quella che è la realtà dei fatti e ad una seria verifica delle conoscenze porta inevitabilmente a sminuire o far sparire del tutto la presunzione di quei pochi privilegiati educati, in famiglia e in società, a sovrastimare le proprie capacità. In conclusione, da tutto ciò appare ancora più evidente l'importanza dell'esistenza di una scuola pubblica che, lontano dall'essere ancora una scuola ordinata per indirizzi di studio identificati con classi sociali, dovrebbe, secondo il dettato costituzionale, contribuire quanto più possibile alla rimozione degli "ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3 della Costituzione Italiana). E tra questi ostacoli, purtroppo, dobbiamo a volte classificare anche una scarsa fiducia nelle proprie capacità.
Se siete degli insegnanti e avete partecipato negli ultimi tempi a qualche corso di aggiornamento sulle nuove metodologie didattiche supportate dal digitale, allora ci sono ampie probabilità che vi siate imbattuti in qualche versione nostrana di una delle seguenti immagini. Di cosa si tratta? È il cosiddetto cono o piramide dell'apprendimento, anche noto come cono di Dale, dal nome del pedagogista statunitense Edgar Dale (1900-1985), che ne fece menzione per la prima volta nel 1946 (all'interno di un suo volume dedicato all'uso degli audiovisivi nell'apprendimento). La piramide/cono rappresenta graficamente il livello di ritenzione dell'esperienza di apprendimento, associando percentuali differenti a diverse attività: per essere più chiari, se da un lato la memoria tratterrebbe soltanto il 10 % di quello che si legge e il 20 % di ciò che si ascolta, guardando un video si tratterrebbe circa il 50% delle informazioni veicolate dal medium, e così proseguendo fino all'optimum percentuale del coinvolgimento del soggetto in attività di apprendimento che simulino esperienze reali. Appare chiaro come un tale ordinamento gerarchico si presti facilmente, per chi ne voglia fare un uso superficiale, a sostenere argomentazioni in cui sarebbero i dati forniti dalle scienze cognitive a sostenere la bontà dell'uso di metodologie attive di apprendimento contro la noiosa e antiquata lezione frontale dei bei tempi andati. Ma le cose stanno proprio così? Quale credibilità ha questo presunto cono di Dale? A voler indagare la questione, la risposta sembrerebbe negativa. Difatti, se Edgar Dale potesse oggi tornare in vita e andarsi a sedere tra il pubblico di insegnanti a cui il suo cono putativo viene presentato in tutte le salse (e percentuali), con buone probabilità interromperebbe il formatore di turno per dirgli: carissimo/a, questo non è affatto il mio cono! Si, perché quello che oggi circola come cono di Dale è un vero e proprio falso d'autore, come cercherò di spiegare tra poco. "Rimbalzo di qua e di là", risposi.
Nicholson Baker è un romanziere e saggista statunitense di successo. Ha al suo attivo diversi romanzi (tra i quali, L'Ammezzato del 1988), accanto a saggi e articoli per riviste prestigiose e quotidiani internazionali (nel 2008, ha scritto, ad esempio, per il Guardian l'interessante articolo dal titolo Come mi sono innamorato di Wikipedia). Con una tale carriera alle spalle, quattro anni fa Baker ha fatto una scelta davvero sorprendente: intraprendere la "carriera" da supplente in un distretto del Maine (che è poi lo stato americano dove lo scrittore vive con la moglie e due figlie). C'è da premettere che il grado di substitute (supplente, appunto), tra le figure che compongono il sistema educativo americano, è quella che occupa il gradino più basso della scala di quella complessa società che è la scuola. Benché, infatti, sia difficile scorgere un profilo unico tra le differenze che compongono un sistema educativo che poggia su una struttura federale, esistono elementi ricorrenti nella vita dei 626.000 supplenti statunitensi: pagati mediamente meno di 15 dollari l'ora, senza assicurazione sulla salute, privi spesso di un'alta qualifica professionale, dal momento che in molti stati basta il diploma per ricoprire questo ruolo (vedi www.theatlantic.com/education/archive/2016/09/the-subtitutes-paradox-of-impermanence/500672/), il supplente vive nella scarsa considerazione che viene riconosciuta a lui, in primo luogo, dagli studenti con cui entra in contatto, anche solo per una giornata lavorativa. A questo punto, i miei abituali venticinque lettori (i quali immagino insegnanti, altrimenti perché dovrebbero perdere tempo a leggermi?) si chiederanno: come mai il famoso scrittore ha intrapreso una simile "carriera"? La risposta possiamo trovarla proprio nelle prime due pagine di questo reportage (se così è giusto definirlo). Dice infatti l'autore: volevo sapere com'è davvero la vita in classe [...] quanto sia pieno, complicato, bizzarro e lungo ogni giorno di scuola. E, a giudicare dal risultato raggiunto, al termine della lettura del Supplente - A scuola con mille bambini (Bompiani, 2018), posso dire che l'obiettivo è pienamente raggiunto.
Il nuovo governo sta mantenendo fede ai suoi impegni elettorali; soprattutto a quelli sottoscritti dal Movimento 5 Stelle con quella fetta di docenti che ha lusingato al motto di cancelliamo la buona scuola. Alla luce, infatti, della nuova legge di bilancio, una delle principali novità della legge 107, l'alternanza scuola-lavoro, appare ampiamente ridimensionata. Quali le motivazioni? Qui entriamo nel non detto. Avendo inserito questa, ed altre norme sulla scuola, non in un disegno di legge organico, ma all'interno di una legge di bilancio, le motivazioni non possono che apparire come quelle di una "razionalizzazione della spesa" di tremontiana memoria, cioè dei tempi in cui con la cultura non si mangiava. Eppure, le motivazioni che si celano dietro questa scelta, così gradita nel mondo della secondaria di secondo grado, sono di natura più profonda ed ideologica. L’alternanza scuola-lavoro, infatti, era entrata di diritto fin da subito nell’elenco delle mostruosità che un certo modo di fare giornalismo italiano ama collezionare sul mondo della scuola. Costretti a raccogliere pomodori nel meridione d’Italia o a fare fotocopie in un ufficio comunale, gli studenti italiani sembravano davvero inseriti in un girone infernale dedicato allo sfruttamento minorile. Questa rappresentazione, basata sulla cronaca o su indagini statistiche di portata limitata (si veda l'inchiesta su un campione di 4000 questionari presentata dalla Rete degli studenti medi), ha assunto nell'anno passato i contorni di una caricatura. Questo perché, come spesso accade dalle nostre parti, la strumentalizzazione di ogni cambiamento per motivi di partigianeria (in questo caso, la lotta senza quartiere alla L. 107 da parte di una fetta consistente del corpo docente italiano e di una parte dei suoi rappresentanti sindacali) porta ad ingigantire oltremisura le storture e le criticità (esistenti, non c’è dubbio) di un tentativo, tutto sommato giusto, di aprire la scuola alla società (e, se si volesse avere un pezzo d’autore di tale approccio, in grado di mettere assieme neoliberismo, padroni delle ferriere e sfruttamento minorile, esempio luminoso è quello fornito dal filosofo Diego Fusaro). Eppure analisi più equilibrate sul tema si potevano trovare. Giusto un anno fa il sociologo del lavoro Francesco Giubileo nel suo Alternanza scuola-lavoro in cerca di nuovi modelli, pubblicato sul sito lavoce.info, puntava il dito su alcuni punti critici dell'alternanza; tra i quali il maggiore, a mio avviso, è il diverso significato attribuito al concetto di “alternanza” dalle varie tipologie di istituto che compongono l’istruzione superiore italiana: si passa infatti dalla sua considerazione come un’utile occasione per l’ingresso diretto nel mondo del lavoro (propria degli istituti professionali e tecnici) ad una concezione (propria dei licei) dell’alternanza come strumento dal valore squisitamente educativo e formativo. Questa dicotomia, oltre ad essere uno specchio fedele della diversa “ragione sociale d’impresa” degli indirizzi di studio italiani, cela in realtà un diverso modo di considerare la “professione”, quale già nel 1916 il filosofo statunitense Dewey denunciava come esistente nel mondo scolastico dei suoi tempi. Prevale ancora l’idea che un’educazione veramente culturale o liberale non possa avere niente in comune, almeno direttamente, con questioni produttive |
BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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