"La nostra reazione convenzionale a tutti i media, A chi gli chiedeva che fine avrebbero fatto i suoi saggi, nel caso in cui la ricerca del futuro avesse sconfessato la sua teoria della ideologia tripartita degli Indoeuropei, il famoso storico delle religioni francese Georges Dumézil, che su quella teoria aveva edificato tutta la sua analisi dei miti e delle strutture sociali delle società antiche, rispondeva: “Semplice, basterebbe spostarli dalla sezione della saggistica a quella della fiction”. Per fortuna del suo autore, I libri di Dumézil possono trovare comodamente posto ancora oggi nel settore della saggistica, mentre sono al contrario i libri dei suoi detrattori ad essere via via scomparsi dai cataloghi delle più prestigiose collane editoriali. Chissà se Marc Prensky, a distanza di soli vent’anni dalla teorizzazione sui cosiddetti nativi digitali, potrà vantare una fortuna analoga; oggi che numerose indagini di pedagogia sperimentale hanno sconfessato ciò che molti, senza il conforto di indagini evidence-based, già al tempo, nel 2001, avevano intuito. Infatti, con buone probabilità, questo scrittore statunitense (e consulente per il mondo della formazione, come ama presentarsi egli stesso sul suo sito personale) potrà vantare unicamente di aver coniato un’espressione che riscuote grande fortuna ancora oggi negli articoli sul mondo della scuola, perché per il resto la validità euristica delle sue speculazioni mostra già da tempo crepe da ogni parte.
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"Rimbalzo di qua e di là", risposi.
Nicholson Baker è un romanziere e saggista statunitense di successo. Ha al suo attivo diversi romanzi (tra i quali, L'Ammezzato del 1988), accanto a saggi e articoli per riviste prestigiose e quotidiani internazionali (nel 2008, ha scritto, ad esempio, per il Guardian l'interessante articolo dal titolo Come mi sono innamorato di Wikipedia). Con una tale carriera alle spalle, quattro anni fa Baker ha fatto una scelta davvero sorprendente: intraprendere la "carriera" da supplente in un distretto del Maine (che è poi lo stato americano dove lo scrittore vive con la moglie e due figlie). C'è da premettere che il grado di substitute (supplente, appunto), tra le figure che compongono il sistema educativo americano, è quella che occupa il gradino più basso della scala di quella complessa società che è la scuola. Benché, infatti, sia difficile scorgere un profilo unico tra le differenze che compongono un sistema educativo che poggia su una struttura federale, esistono elementi ricorrenti nella vita dei 626.000 supplenti statunitensi: pagati mediamente meno di 15 dollari l'ora, senza assicurazione sulla salute, privi spesso di un'alta qualifica professionale, dal momento che in molti stati basta il diploma per ricoprire questo ruolo (vedi www.theatlantic.com/education/archive/2016/09/the-subtitutes-paradox-of-impermanence/500672/), il supplente vive nella scarsa considerazione che viene riconosciuta a lui, in primo luogo, dagli studenti con cui entra in contatto, anche solo per una giornata lavorativa. A questo punto, i miei abituali venticinque lettori (i quali immagino insegnanti, altrimenti perché dovrebbero perdere tempo a leggermi?) si chiederanno: come mai il famoso scrittore ha intrapreso una simile "carriera"? La risposta possiamo trovarla proprio nelle prime due pagine di questo reportage (se così è giusto definirlo). Dice infatti l'autore: volevo sapere com'è davvero la vita in classe [...] quanto sia pieno, complicato, bizzarro e lungo ogni giorno di scuola. E, a giudicare dal risultato raggiunto, al termine della lettura del Supplente - A scuola con mille bambini (Bompiani, 2018), posso dire che l'obiettivo è pienamente raggiunto.
È almeno da un secolo che si parla di nuove tecnologie nella scuola, al punto che qualcuno si è sentito in dovere di parlare di “cent’anni di fallimenti”, al riguardo di approcci pedagogici focalizzati sull’esaltazione delle virtù della macchina piuttosto che sul modo in cui la tecnologia può facilitare la costruzione di situazioni di apprendimento all’interno della classe (cfr. l'analisi del problema fatta da Richard E. Mayer nel suo testo Multimedia Learning). Se, infatti, nel 1922 il famoso Thomas Edison proclamava che il cinematografo avrebbe sostituito in gran parte i libri di testo a scuola, nel 1945 William Levison, direttore di una delle prime "scuole via radio" d'America (la Ohio School of the Air), profetizzava che la radio sarebbe divenuta un oggetto comune in classe quasi quanto la lavagna. Inutile dire che le loro profezie si sono rivelate fallimentari. Per restare in Italia, Aldo Visalberghi, nel capitolo Le nuove tecnologie nella scuola del suo Insegnare ed apprendere – Un approccio evolutivo (La Nuova Italia 1988), metteva in guardia da un falso senso di onnipotenza che lo strumento tecnologico poteva innescare nello studente, e nel docente (aggiungiamo noi), entrambe affascinati “dal gioco sottile che lega le loro dita alle mutevoli immagini, magari colorate, dello schermo”. Queste preoccupazioni nascevano sicuramente da una tecnologia che lasciava intuire ancora solo in parte i suoi notevoli sviluppi futuri (quando Visalberghi scriveva quelle parole, ad es., era stato da poco commercializzato il pc Macintosh 128k, mentre del 1985 era il sistema Windows 1.0); nonostante ciò, il famoso pedagogista italiano aveva ben chiara già al tempo la linea che si sarebbe dovuta seguire nell’introdurre il computer nel curricolo; esso avrebbe dovuto sicuramente contribuire allo sviluppo di “libere attività ludico-esplorative” (come suggeriva del resto lo stesso Steve Jobs nel 1984 durante la campagna promozionale del suo MacIntosh, presentato agli stessi manager come uno “strumento per giocare”). Ora, rispetto a queste premesse, appare inutile sottolineare la rivoluzione rappresentata dal digitale nelle nostre vite, ma soprattutto nel campo dell’educational technology; si potrebbe dire anzi che il mondo digitale ha sviluppato a tal punto l’approccio ludico-esplorativo al sapere che una parte dell’intellighenzia scolastica (che gode di grande autorità sui nostri quotidiani e nei nostri salotti televisivi) vede precisamente in esso il cavallo di Troia con cui si tenta di abbattere un modello di scuola seria e difficile (cfr. la laudatio temporis acti di Paola Mastrocola sul Sole 24ore). Rispetto a queste sterili polemiche, le quali ripropongono una dicotomia di ascendenza quasi biblica (quale è la contrapposizione tra la fatica del lavoro e la superficialità del gioco), una scuola che volesse assolvere al suo compito primario, non potrebbe non tener conto che lo studente del XXI secolo, in questa sorta di ecosistema digitale, ci vive indipendentemente dalla scuola: dal pc al cellulare, dai più moderni elettrodomestici all’ultimo modello di smartwatch, infatti, non esiste contesto in cui la relazione tra l’uomo e l’ambiente non sia mediata da uno strumento digitale. Dunque, come potrebbe la scuola assolverebbe al suo compito, quale è quello di educare alla realtà, prescindendo da questo dato di fatto? Lo potrebbe fare sicuramente, correndo però il rischio di lasciare i nostri giovani in balia degli stimoli smodati di un mercato che non sempre ama cittadini informati dei pericoli e delle virtù del mondo digitale.
Nell'introduzione alla sua biografia Giovanna D'Arco - La vergine guerriera (Mondadori, 1998), lo storico italiano Franco Cardini ammetteva senza remore le ragioni del suo interesse verso la celebre eroina francese: gli ardori dell'adolescenza. Risvegliati nel 1952, quando sui muri dei cinematografi d'Italia campeggiava il volto di Ingrid Bergman, l'attrice che aveva prestato le sue grazie alla pulzella d'Orleans nel colossal del 1952 diretto dal regista Victor Fleming. Ammetterà Cardini: "a lei (la Bergman/Giovanna D'Arco, n.d.r.) dovevo tanto l'amore per la Francia quanto quello per il medioevo". Quali che siano state poi le reali fattezze di Giovanna D'Arco e quale il suo ruolo storico nella Guerra dei Cent'Anni (insomma sia ella stata una martire consapevole, una folle ispirata, una pedina nella mani del delfino di Francia), la sua esistenza ha comunque alimentato nella mente del giovane Cardini (e prima di lui in numerosi artisti e scrittori) un vero e proprio mito, tale da generare, come è peculiarità del mito appunto, una serie di varianti sempre diverse. Per cui, nel tempo, Giovanna D'Arco è stata: un'eroina nazionale, posta a baluardo del più consumato sciovinismo, quale è nella scultura del 1874 collocata a Parigi in Place des Pyramides; una adolescente turbata e psicolabile, come appare nel film diretto nel 1999 da Luc Besson; una diva ante litteram votata al martirio della celebrità, come cantata da Madonna in un brano musicale recente.
Questa natura polimorfa della eroina francese, in grado di attraversare le arti e i secoli con fortuna duratura, consente in ambito didattico di costruire percorsi di conoscenza che parimenti attraversano le discipline scolastiche: storia, storia dell'arte, italiano, cinema e musica (se queste ultime due trovassero diritto di cittadinanza nei nostri ordinamenti liceali). A tal proposito, tempo fa mi è capitato di sfogliare il documento dei Common Core Standars (sorta di linee programmatiche per la scuola superiore americana adottate in quarantadue dei cinquanta stati federati) ed imbattermi in una delle competenze-chiave delle cosiddette humanities: ovvero, analizzare le molteplici interpretazioni di una storia, di un soggetto teatrale o di una poesia, valutando come ogni nuova versione abbia adattato o modificato al suo bisogno la fonte di riferimento. Una competenza che potrebbe essere esercitata, con facilità, anche nell'analizzare figure-chiave della storia (un Giulio Cesare, un Napoleone o una Giovanna D'Arco, per l'appunto), mostrando come ogni epoca e ogni medium (arte, cinema, letteratura ecc.) abbia creato e rimodellato a propria immagine e somiglianza l'eroe della storia, al punto che questa operazione di modellamento finisce per fornirci più informazioni sull'epoca e l'artista che lo ha realizzato che sul personaggio stesso. E questo esattamente è quanto ho pensato di realizzare con alcuni miei studenti, a partire da un'attività di simulazione molto semplice: una richiesta di allestimento di una mostra dedicata al "mito di Giovanna D'Arco".
Organizzata quindi per gruppi di apprendimento l'attività richiesta dalla consegna, ciascun gruppo ha lavorato nella raccolta di informazioni online sulla vita di Giovanna D'Arco nell'arte, nel cinema, nella musica e nella letteratura, aggregando i materiali raccolti in un padlet o in un ppt. I risultati sono stati più o meno brillanti, come sempre. E di seguito mostro due esempi di lavoro ben riuscito.
Al termine di tutto, ho pensato però che tutti questi materiali raccolti in classe avrebbero potuto costituire un utile supporto per la realizzazione di qualcosa di più complesso. Ed ecco che mi sono ricordato della passione di mie due studentesse per il social Tumblr: una piattaforma di microblogging (sicuramente di nicchia tra gli adolescenti rispetto ai più noti Facebook o Twitter), che consente di aggregare contenuti multimediali e costruire anche pagine tematiche. Pertanto ho chiesto alle mie studentesse Serena e Aurora: perché non raccogliete i materiali dei vostri compagni di classe e costruite un blog tematico su Giovanna D'Arco? Quello che ne è venuto fuori è un diario intimo, in cui la pulzella d'Orleans, come una moderna adolescente, racconta la sua tragedia (tra i versi di De André e degli Arcade Fire). Per cui vi lascio alla lettura (anzi alla visione o, anche, all'ascolto) della tragedia di Giovanna, così come ri-creata da Serena Bungaro e Aurora Nenci della classe 4sC del Liceo Scientifico "Vito Volterra" di Ciampino.
Ho realizzato con l'app Easel.ly un'infografica che mostra le conclusioni cui è giunto il rapporto OCSE Studenti, computer e apprendimento, pubblicato ad ottobre del 2015. Si tratta di un'analisi comparativa che, nell'autunno scorso, ha dato vita sui maggiori quotidiani italiani ad una serie di articoli che, almeno nei titoli, non rendono giustizia alle complesse conclusioni cui è giunto il rapporto (cfr. l'articolo Se il pc a scuola non aiuta i ragazzi de La Repubblica). L'indagine dell'OCSE, in sintesi, ha messo a confronto i risultati di studenti di diversi paesi del mondo nei test PISA, incrociandoli con una serie di dati inerenti l'uso delle TIC a scuola. A tal riguardo, le domande cui i soggetti campione dovevano rispondere riguardavano, ad esempio, se in classe veniva utilizzato il computer per lavori individuali e di gruppo oppure se il sito della scuola veniva usato per consultare, scaricare e caricare materiali di apprendimento. Sorprendentemente, i top performers nelle prove dei test PISA, Corea del Sud e Shangai, non risultano affatto ai primi posti per l'utilizzo del computer in classe, anzi. Tuttavia, Andreas Schleicher (Education and Skills Directorate - OCSE) nelle sue conclusioni lascia intendere che gli studenti di questi paesi, nel dare le loro risposte, possono aver dato un'interpretazione limitante della parola computer, quando gli veniva chiesto se e quanto lo utilizzavano per l'attività didattica (escludendo, quindi, di fatto dall'impiego di questa parola, strumenti quali tablet e cellulari). Al di là però di quest'ultimo aspetto, più interessante è la conclusione cui giunge Schleiser in merito all'integrazione tra didattica e TIC: la tecnologia può ampliare il raggio d'azione di un bravo insegnante, mentre non aiuta un insegnamento di basso livello (poor teaching, nel testo). Conclusioni cui può giungere, facilmente e in modo autonomo, qualsiasi insegnante con esperienza sul campo. |
BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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