La vera indagine storica deve concludersi da dove ha preso le mosse: Avranno forse tirato un sospiro di sollievo i molti insegnanti, studiosi e personaggi del mondo della cultura italiana, firmatari dell’appello per il ripristino della storia nell’Esame di Stato, al recente annuncio del ministro Fioramonti: tornerà la storia e la sua presenza, all’interno delle tipologie di prova scritta dell’esame, sarà obbligatoria. Anche noi che scriviamo potremmo ritenerci soddisfatti, stante lo stato penoso della conoscenza storica in questo Paese (come abbiamo riportato in un precedente post di questo blog), se non fosse che mai abbiamo abbracciato la tesi di quanti pensano che lo studio della storia si possa riformare con un “ritorno al passato” (è proprio il caso di dirlo). L’analisi che avevamo fatto in quel post dei risultati fortemente negativi di due ricerche svolte sul tema “Italiani e conoscenza della storia”, infatti, ci aveva spinto a chiederci, senza fornire una risposta, a chi o cosa attribuirne le responsabilità. Raramente fenomeni così complessi, quali sono quelli che riguardano le carenze di apprendimento registrate in un ambito specifico del sapere, possono concludersi con l'individuazione di un solo responsabile; tuttavia, sembra ovvio chiedersi adesso che gli studenti potranno tornare a “non scegliere” la traccia di storia (poiché ciò appariva dalle statistiche sulle preferenze dei ragazzi nella scelta della tipologia di prova scritta all'esame di stato) se e fino a che punto l'insegnamento della storia, così come viene svolto nei vari ordini e gradi del nostro sistema di istruzione, abbia parte nel determinare questo risultato. La risposta a questo interrogativo appare poi tanto più urgente quanto più le indagini che a giugno abbiamo preso in esame, in particolar modo quella di Eugenio e Pietro Garibaldi, denunciano come studenti universitari che hanno terminato da poco i percorsi liceali con successo raggiungono in media, in un semplice timeline test, risultati ampiamente insufficienti. Detto ciò, come si insegna allora storia in Italia? Difficile avere un quadro generale che sia supportato da un’analisi rigorosa; anche perché dovremmo stabilire allo stesso tempo se esiste un metodo di osservazione dell’attività didattica in aula in grado di restituirci dati comparabili tra loro. Tuttavia, se qualcuno volesse cimentarsi in un’indagine di questo genere, non sarebbe male partire non dalla coda, bensì dalla testa del fenomeno: fuor di metafora, non dall’osservazione di come si insegna storia nelle scuole, ma di come viene insegnata nelle università, lì dove i futuri insegnanti di storia si immagina vengano preparati alla loro futura professione: sia essa di storici che di insegnanti di storia (o di entrambe). Se si ritiene infatti che si insegna come ci è stato insegnato, allora non dovrebbe apparire fuori luogo chiedersi quale sia il modello di didattica della storia che viene proposto in ambito universitario dagli storici di professione. Una domanda che in Italia potrebbe infastidire molti accademici; incluse penne di un certo prestigio, qual è la firma dell’illustre accademico dei Lincei e storico dell’arte, Salvatore Settis. Egli, infatti, in un articolo uscito l’anno scorso, ha dato prova di quella che è un’idea sfortunatamente non relegata soltanto tra le inclite aule dell’università italiana, ma anzi proprio da lì diffusa a valle verso le scalcinate aule della scuola dell’obbligo. La sua furia iconoclasta contro quello che egli definiva il modello di “scuola renziana”, lo portò in quella sede ad operare una curiosa separazione tra disciplina e didattica, sminuendo la seconda come una sorta di uggia da pedagogisti, così che preoccuparsi del come si insegna, piuttosto che del cosa si insegna, avrebbe il potere di “infettare” (sic) la mente di molti poveri insegnanti, inclusa a questo punto anche quella dello scrivente (le argomentazioni di Settis sono state facilmente smontate da due docenti universitari, cfr. http://www.laricerca.loescher.it/istruzione/1708-i-contenuti-e-il-contatto.html). So poco di quello che avviene oggi nell’università italiana, ma se devo affidarmi ai miei ricordi di studente, vecchi di vent’anni, oltre che all’approccio che noto verso l’insegnamento da parte di alcuni dei miei colleghi più giovani, non credo che ancora oggi la situazione sia poi tanto diversa da quella che ho lasciato. Pochi storici si curano di come “insegnano la storia”; pochi di come la storia sarà insegnata un domani da quegli studenti, divenuti insegnanti, che siedono davanti loro nelle aule dell’università. Eppure dovrebbero curarsene. Almeno questo è quello che pensa Bruce VanSledright, insegnante e docente universitario di didattica della storia, in un articolo del 2007 dal titolo Why should historians care about teaching history? (Perché gli storici dovrebbero preoccuparsi dell’insegnamento della storia?) Sulla base di ricerche condotte sul campo, VanSledright delinea infatti quelli che sembrano i difetti tipici di un insegnamento raffinatissimo nell’ambito della ricerca, ma che non sa raggiungere nella pratica didattica un livello analogo. Val la pena, a tal proposito, sentire direttamente le sue parole: Pochi storici si preoccupano (durante i loro corsi universitari, n.d.t.) di alzare il velo e rivelare i dibattiti e le argomentazioni che la ricerca storica professionale ha affrontato nel tentativo di costruire storie accettabili da quella vastità che noi chiamiamo “il passato”. [...] Così i futuri insegnanti di storia lasciano l’università senza aver appreso apparentemente nulla di quelle che sono le peculiarità e le caratteristiche epistemologiche della disciplina, nulla dei tipi di ragionamento richiesti dalla storia e le pratiche preziose che generano conoscenza all’interno della comunità degli storici. [...] Questi insegnanti avranno una tendenza marcata ad accettare per buoni i manuali di storia ed insegnare servendosi di essi come se possedessero qualcosa che si avvicina ad un’autorità divina. Difficile non ritrovare in queste parole, una descrizione abbastanza realistica di quella che è stata la propria esperienza universitaria. Se infatti ritorno con la mente ai corsi di storia seguiti all’università, mi rivedo seduto su un banco, chino su un quaderno a prendere appunti, che più tardi a casa non avrei capito (ecco perché, quell’insuperabile ed unico maestro che ho avuto la fortuna di incontrare, il prof. Ferdinando Taviani, ci metteva in guardia dal prendere appunti durante le sue lezioni, perché ci ripeteva “gli appunti può prenderli solo chi già conosce un argomento”). Mai che qualcuno di questi storici mi avesse presentato le difficoltà incontrate nella ricostruzione di quell’evento del passato ormai frantumato in pezzi, che si ambisce a rimettere assieme per ricavarne un’unità che forse al tempo in cui era vivo nemmeno possedeva (come insegnava quell’altro grande maestro della storia, Marc Bloch). Un'indagine condotta negli Stati Uniti, qualche tempo fa, ha notato a tal proposito una sorprendente spia linguistica di quanto abbiamo finora detto: se infatti, nei loro saggi, gli storici fanno spesso uso di un linguaggio che si nutre di dubbi (un linguaggio fatto di forse, di ma, di d’altro canto), quando si vira verso i manuali e i libri di testo scolastici, questo linguaggio quasi scompare ed assume i toni della sicumera. Per cui il passato appare spesso come un racconto senza dubbi e senza intoppi, una collezione di fatti ben noti nel loro svolgimento. Non è a caso, infatti, che se uno provasse a chiedere ai propri studenti da dove pensano che gli autori del manuale di storia abbiano preso le loro informazioni, molti si sentirebbero rispondere: da Wikipedia! Provate adesso, per capire, ad aprire un qualsiasi manuale scolastico di storia: testi ben curati, un apparato iconografico perfetto a corredo di ogni paragrafo, mappe, sintesi e laboratori di analisi delle fonti storiche alla fine di ogni capitolo. Tutto procede secondo una chiara logica: prima vengono i fatti da studiare; acquisiti i fatti, si procede alla loro analisi ed infine alla loro valutazione. Il palinsesto di questi testi in realtà non è altro che un fraintendimento della famosa tassonomia di Benjamin Bloom, la quale, nata nel 1956 per la verifica del raggiungimento di obiettivi di apprendimento, può essere fuorviante se usata per "trarne meccanicamente dei criteri per la programmazione del processo didattico" (Roberto Maragliano). Alla luce di ciò, osserva Sam Wineburg, autore del curriculum Reading like a historian della Stanford University (un programma di studi basato sullo sviluppo nello studente del pensiero storico), se il nostro obiettivo è quello di fare della storia un abito mentale ed uno strumento per capire il presente attraverso lo studio del passato, allora la "piramide di Bloom" andrebbe capovolta, infatti
mettere la conoscenza dei contenuti all'inizio del processo di apprendimento implica che il mondo delle idee sia ben noto e che il pensiero critico non significa altro che raccogliere fatti noti in modo da costruirci su un giudizio [...] Tuttavia quest'approccio inverte quello che è il processo del ragionamento storico. Alla luce di ciò, una storia basata quasi esclusivamente sulla narrazione degli eventi passati (e che lo si faccia con l'ausilio delle nuove tecnologie digitali appare un fattore davvero secondario) si traduce inevitabilmente in una storia che ignora le difficoltà, i dubbi e i processi logici del ragionamento storico, mentre se si vuole che la storia possa avere un ruolo fondamentale nel curricolo di studi si dovrebbe al contrario prediligere la sua funzione primaria: quella di ricostruire il passato a partire da domande di indagine.
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