Quando si parla di fake news o post-verità riesce facile a molti individuare le cause che spiegano perché alcune persone vengono gabbate dalla disinformazione che circola per il web. Si tirano in ballo, in questi casi, i “pregiudizi di conferma” (bias of confirmation), l’analfabetismo funzionale, il pensiero magico e via di questo passo, spesso nella credenza che siano gli “incolti” a cedere alla disinformazione, mentre in realtà a cadere vittima di questi tranelli potrebbe essere ciascuno di noi (come confermato, in Italia, da un'indagine Demos del 2017). Ma cosa accade se, invece di inquadrare le manchevolezze dei consumatori di disinformazione online, si prova a guardare all’opposto a quelli che non si lasciano menare per il naso, cioè a chi sa valutare correttamente la fondatezza di un’informazione trovata online?
Proprio nell’intento di tracciare il profilo di questi “competenti del web”, nel 2017 l’università di Stanford ha condotto un’indagine basata sull'analisi di tre gruppi di controllo, così costituiti:
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Non esistono ricerche in grado di dimostrare In questi giorni in cui la scuola, come tutta la nostra vita, è stata sconvolta dall'emergenza epidemica del COVID-19 e la sua routine ha dovuto fare i conti con l'attivazione di una modalità didattica che, molte volte, si serve di uno schermo per videoconferenze o videolezioni in modalità sincrona o asincrona, potrebbe essere utile ricordare quali sono le principali ricerche condotte in campo pedagogico sul cosiddetto "apprendimento multimediale" (multimedia learning), ovvero un apprendimento che si serve di medium che possono combinare assieme immagini, testi, voce umana e suoni. Evidentemente se riandiamo all'origine del termine multimediale, non necessariamente dobbiamo pensare al computer e alle nuove tecnologie per l'apprendimento; un libro di testo illustrato, in cui le immagini, le mappe concettuali ed altri schemi figurati affiancano paragrafi scritti rientra perfettamente in una concezione del multimediale come di un messaggio che fa uso di più canali di comunicazione. Tuttavia qui ci interessa, vista la situazione che stiamo vivendo, soffermarci proprio su quel tipo di messaggio multimediale che viene creato attraverso l'utilizzo delle nuove tecnologie. È possibile che qualche insegnante, nel mentre si accinge a realizzare una videoconferenza o una video lezione con i propri studenti, si ponga le seguenti domande: è opportuno che si veda il mio volto mentre spiego la mia lezione? Oppure è meglio che, ad accompagnare la voce che spiega, sia soltanto un testo scritto? Oppure con il solo supporto di immagini? Tutte domande a cui la ricerca di Richard E. Mayer ha tentato di fornire una risposta qualche anno fa. Nella sua opera più famosa, dal titolo Multimedia learning (Cambridge University Press, 2009, 2 ed.), Richard E. Mayer, sulla base di ricerche evidence-based da lui condotte, ha infatti enucleato quelli che sono a suo dire i dodici principi che dovrebbero governare la produzione di messaggi multimediali. Lo studioso americano è convinto che le sue non siano regole universali da seguire pedissequamente, piuttosto linee-guida da tenere presenti per la progettazione di materiale didattico. Qui di seguito una mia traduzione dall'inglese dei dodici principi di Mayer (secondo il testo della seconda edizione del saggio citato). L'isola di Ponza nell'immaginario comune è il correlativo oggettivo di tante cose (quali, ad esempio, svago, relax, riposo); tutte facilmente catalogabili nel campo semantico della vacanza. Cosa avverrebbe però se a queste piacevoli parole ne associassimo per contrasto altre quali confino, dittatura, controllo, schedatura? Di certo la piacevolezza del nostro primo fantasticare verrebbe rovinata dall'evocazione di un periodo buio della storia italiana, quale fu quello del ventennio fascista. Difatti, tra il 1928 e il 1943, Ponza è stata, al pari della più nota e vicina isola di Ventotene, colonia confinaria: ovvero luogo deputato all'isolamento e al controllo di individui ritenuti pericolosi dal regime. Nell'arco di un quindicennio, l'isola ha ospitato numerosi oppositori politici di varia estrazione sociale e fede politica: dal socialista Sandro Pertini al comunista Giorgio Amendola, dal legionario dannunziano Mario Magri (poi tragicamente trucidato alle Fosse Ardeatine) al Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani. E questo per fermarsi solo ad alcuni dei nomi più noti negli annali della storia; accanto ad essi, tuttavia, ne restano tanti altri oggi finiti nell'oblio. Al turista che oggi si muova spensierato per l'isola, di questo triste passato non gli arriverà quasi eco alcuna. Eppure, per dirla con Proust, "il passato non solo non è fugace, ma resta fermo" per quegli occhi, si vorrebbe aggiungere, che vogliano e sappiano cogliere le tracce che esso, il passato, ha disseminato in mezzo al nostro presente. E questa sorta di sguardo è proprio quello che la mia collega Rita Bosso, ponzese di origine nonché scrittrice e cultrice di memorie locali, ha saputo nel tempo coltivare, riuscendo a tirar su da fonti di varia natura (pubblicazioni, foto d'epoca, memorie orali ecc.) un discreto archivio personale sulla storia del confino a Ponza. All'inizio dell'anno scolastico Rita, conoscendo il mio interesse per la storia e le nuove tecnologie digitali, mi ha avvicinato assieme al mio collega di informatica Massimo Pescatori. Rita aveva un'idea ben chiara nella mente: realizzare un' app per dispositivi mobili che consentisse di localizzare, nell’attuale tessuto urbano, i luoghi del confino, raccontando allo sprovveduto visitatore (o anche all'ignaro abitante del posto) le storie dei confinati. Un'idea bellissima e originale, a cui inizialmente (come spesso mi capita) ho posto una serie di resistenze, inerenti la fattibilità del prodotto con le nostre risorse e competenze. Fortunatamente la caparbietà della mia collega ha avuto la meglio; e questo post sta appunto qui a testimoniare un'impresa scolastica in cui ho potuto mettere alla prova un modello di apprendimento per progetti (project-based learning), che ben si sposa con un'attività di alternanza scuola-lavoro.
È almeno da un secolo che si parla di nuove tecnologie nella scuola, al punto che qualcuno si è sentito in dovere di parlare di “cent’anni di fallimenti”, al riguardo di approcci pedagogici focalizzati sull’esaltazione delle virtù della macchina piuttosto che sul modo in cui la tecnologia può facilitare la costruzione di situazioni di apprendimento all’interno della classe (cfr. l'analisi del problema fatta da Richard E. Mayer nel suo testo Multimedia Learning). Se, infatti, nel 1922 il famoso Thomas Edison proclamava che il cinematografo avrebbe sostituito in gran parte i libri di testo a scuola, nel 1945 William Levison, direttore di una delle prime "scuole via radio" d'America (la Ohio School of the Air), profetizzava che la radio sarebbe divenuta un oggetto comune in classe quasi quanto la lavagna. Inutile dire che le loro profezie si sono rivelate fallimentari. Per restare in Italia, Aldo Visalberghi, nel capitolo Le nuove tecnologie nella scuola del suo Insegnare ed apprendere – Un approccio evolutivo (La Nuova Italia 1988), metteva in guardia da un falso senso di onnipotenza che lo strumento tecnologico poteva innescare nello studente, e nel docente (aggiungiamo noi), entrambe affascinati “dal gioco sottile che lega le loro dita alle mutevoli immagini, magari colorate, dello schermo”. Queste preoccupazioni nascevano sicuramente da una tecnologia che lasciava intuire ancora solo in parte i suoi notevoli sviluppi futuri (quando Visalberghi scriveva quelle parole, ad es., era stato da poco commercializzato il pc Macintosh 128k, mentre del 1985 era il sistema Windows 1.0); nonostante ciò, il famoso pedagogista italiano aveva ben chiara già al tempo la linea che si sarebbe dovuta seguire nell’introdurre il computer nel curricolo; esso avrebbe dovuto sicuramente contribuire allo sviluppo di “libere attività ludico-esplorative” (come suggeriva del resto lo stesso Steve Jobs nel 1984 durante la campagna promozionale del suo MacIntosh, presentato agli stessi manager come uno “strumento per giocare”). Ora, rispetto a queste premesse, appare inutile sottolineare la rivoluzione rappresentata dal digitale nelle nostre vite, ma soprattutto nel campo dell’educational technology; si potrebbe dire anzi che il mondo digitale ha sviluppato a tal punto l’approccio ludico-esplorativo al sapere che una parte dell’intellighenzia scolastica (che gode di grande autorità sui nostri quotidiani e nei nostri salotti televisivi) vede precisamente in esso il cavallo di Troia con cui si tenta di abbattere un modello di scuola seria e difficile (cfr. la laudatio temporis acti di Paola Mastrocola sul Sole 24ore). Rispetto a queste sterili polemiche, le quali ripropongono una dicotomia di ascendenza quasi biblica (quale è la contrapposizione tra la fatica del lavoro e la superficialità del gioco), una scuola che volesse assolvere al suo compito primario, non potrebbe non tener conto che lo studente del XXI secolo, in questa sorta di ecosistema digitale, ci vive indipendentemente dalla scuola: dal pc al cellulare, dai più moderni elettrodomestici all’ultimo modello di smartwatch, infatti, non esiste contesto in cui la relazione tra l’uomo e l’ambiente non sia mediata da uno strumento digitale. Dunque, come potrebbe la scuola assolverebbe al suo compito, quale è quello di educare alla realtà, prescindendo da questo dato di fatto? Lo potrebbe fare sicuramente, correndo però il rischio di lasciare i nostri giovani in balia degli stimoli smodati di un mercato che non sempre ama cittadini informati dei pericoli e delle virtù del mondo digitale.
Ho realizzato con l'app Easel.ly un'infografica che mostra le conclusioni cui è giunto il rapporto OCSE Studenti, computer e apprendimento, pubblicato ad ottobre del 2015. Si tratta di un'analisi comparativa che, nell'autunno scorso, ha dato vita sui maggiori quotidiani italiani ad una serie di articoli che, almeno nei titoli, non rendono giustizia alle complesse conclusioni cui è giunto il rapporto (cfr. l'articolo Se il pc a scuola non aiuta i ragazzi de La Repubblica). L'indagine dell'OCSE, in sintesi, ha messo a confronto i risultati di studenti di diversi paesi del mondo nei test PISA, incrociandoli con una serie di dati inerenti l'uso delle TIC a scuola. A tal riguardo, le domande cui i soggetti campione dovevano rispondere riguardavano, ad esempio, se in classe veniva utilizzato il computer per lavori individuali e di gruppo oppure se il sito della scuola veniva usato per consultare, scaricare e caricare materiali di apprendimento. Sorprendentemente, i top performers nelle prove dei test PISA, Corea del Sud e Shangai, non risultano affatto ai primi posti per l'utilizzo del computer in classe, anzi. Tuttavia, Andreas Schleicher (Education and Skills Directorate - OCSE) nelle sue conclusioni lascia intendere che gli studenti di questi paesi, nel dare le loro risposte, possono aver dato un'interpretazione limitante della parola computer, quando gli veniva chiesto se e quanto lo utilizzavano per l'attività didattica (escludendo, quindi, di fatto dall'impiego di questa parola, strumenti quali tablet e cellulari). Al di là però di quest'ultimo aspetto, più interessante è la conclusione cui giunge Schleiser in merito all'integrazione tra didattica e TIC: la tecnologia può ampliare il raggio d'azione di un bravo insegnante, mentre non aiuta un insegnamento di basso livello (poor teaching, nel testo). Conclusioni cui può giungere, facilmente e in modo autonomo, qualsiasi insegnante con esperienza sul campo. |
BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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