In che modo la nuova concezione della storia può trasferirsi
Reading like a historian è un curriculum di storia promosso dallo Stanford History Education Group, il cui obiettivo principale è quello di coinvolgere gli studenti in attività d’indagine storica, come si può leggere sulla homepage del sito https://sheg.stanford.edu/history-lessons. Lo sviluppo di questo curriculum si deve al lavoro di riflessione teorica ed indagine sperimentale di Sam Wineburg, direttore dello stesso Stanford History Education Group e Professor of Education and History & American Studies presso la stessa università (di Wineburg e del suo approccio avevamo brevemente già parlato qui).
Il curriculum è diviso in tre grandi macroaree tematiche:
All'interno della sezione Intro materials possiamo trovare un'attività didattica molto interessante dal titolo Snapshot autobiography, che ho tradotto liberamente in italiano con il titolo Istantanee di vita e di cui vi parlerò ora. Una delle prime cose che l’insegnante di storia del biennio delle superiori fa, quando mette piede in aula per la prima volta, è richiamare alla memoria dello studente il significato profondo dello studiare storia, introducendo al contempo quelle categorie concettuali necessarie ad ordinare logicamente i fatti storici: parliamo, ad esempio, dei concetti di tempo e spazio oppure del binomio causa ed effetto, come anche della suddivisione delle fonti in primarie e secondarie o, ancora, fonti scritte e non scritte. Nei miei primi anni di insegnamento, ho spesso introdotto alla storia in questo modo ed ho constatato come difficilmente si riesca a suscitare l’attenzione e la curiosità dello studente. Infatti, si tratta di discorsi che, per loro natura, se si limitano a restare discorsi, appaiono privi di agganci con il vissuto del discente. Anche quando, sempre ad inizio del programma della disciplina, si pone la classica domanda “Allora, ragazzi, cos’è la storia?” oppure “A cosa serve la storia?”, le risposte che si raccolgono appaiono standardizzate oppure ripetute come una vuota formula retorica, il cui senso profondo sfugge a chi la pronuncia. Gli studenti, infatti, sono abituati a ripetere stancamente che “la storia serve a non ripetere gli errori del passato”, ma cosa questo voglia dire sfugge completamente alla loro comprensione. Quella risposta è infatti frutto di una visione “retorica” della storia, intesa quasi come un apologo il cui significato allegorico viene piegato ad un intento pedagogico. Tuttavia, non è colpa di questi studenti, se nel passato nessuno gli ha presentato questa disciplina anche nella sua veste di strumento per pensare diversamente la realtà e i suoi problemi.
Data dunque l’insoddisfazione derivante da questo approccio tradizionale, contrariamente al passato, in quest’anno scolastico ho sperimentato alcune delle attività presenti nell’area Intro materials del curriculum Reading like a historian. Nella prima lezione introduttiva allo studente viene chiesto di individuare alcuni episodi particolarmente significativi del proprio passato (ad es., la storia della propria nascita, il primo giorno di scuola, il matrimonio di un cugino più grande ecc.), al fine di individuare testimoni che siano in grado di confermare o smentire la propria versione dei fatti accaduti. Pertanto, dopo aver individuato questi eventi ed aver discusso nel gruppo-classe quali prove ciascuno potesse addurre a sostegno della propria versione dei fatti, ho chiesto ai miei studenti di primo anno di creare un opuscolo, a partire da un semplice foglio A4, in cui ciascuna faccia contenesse una descrizione di uno degli eventi che avevano selezionato dalla propria memoria. Questa fase dell’attività è apparsa molto stimolante, anche per il richiamo a pratiche ludiche di disegno e visualizzazione che, comuni nella scuola primaria e nella secondaria di primo grado, per un malinteso senso della serietà, vengono nel liceo italiano spesso abbandonate.
2 Comments
Non esistono ricerche in grado di dimostrare In questi giorni in cui la scuola, come tutta la nostra vita, è stata sconvolta dall'emergenza epidemica del COVID-19 e la sua routine ha dovuto fare i conti con l'attivazione di una modalità didattica che, molte volte, si serve di uno schermo per videoconferenze o videolezioni in modalità sincrona o asincrona, potrebbe essere utile ricordare quali sono le principali ricerche condotte in campo pedagogico sul cosiddetto "apprendimento multimediale" (multimedia learning), ovvero un apprendimento che si serve di medium che possono combinare assieme immagini, testi, voce umana e suoni. Evidentemente se riandiamo all'origine del termine multimediale, non necessariamente dobbiamo pensare al computer e alle nuove tecnologie per l'apprendimento; un libro di testo illustrato, in cui le immagini, le mappe concettuali ed altri schemi figurati affiancano paragrafi scritti rientra perfettamente in una concezione del multimediale come di un messaggio che fa uso di più canali di comunicazione. Tuttavia qui ci interessa, vista la situazione che stiamo vivendo, soffermarci proprio su quel tipo di messaggio multimediale che viene creato attraverso l'utilizzo delle nuove tecnologie. È possibile che qualche insegnante, nel mentre si accinge a realizzare una videoconferenza o una video lezione con i propri studenti, si ponga le seguenti domande: è opportuno che si veda il mio volto mentre spiego la mia lezione? Oppure è meglio che, ad accompagnare la voce che spiega, sia soltanto un testo scritto? Oppure con il solo supporto di immagini? Tutte domande a cui la ricerca di Richard E. Mayer ha tentato di fornire una risposta qualche anno fa. Nella sua opera più famosa, dal titolo Multimedia learning (Cambridge University Press, 2009, 2 ed.), Richard E. Mayer, sulla base di ricerche evidence-based da lui condotte, ha infatti enucleato quelli che sono a suo dire i dodici principi che dovrebbero governare la produzione di messaggi multimediali. Lo studioso americano è convinto che le sue non siano regole universali da seguire pedissequamente, piuttosto linee-guida da tenere presenti per la progettazione di materiale didattico. Qui di seguito una mia traduzione dall'inglese dei dodici principi di Mayer (secondo il testo della seconda edizione del saggio citato). "La nostra reazione convenzionale a tutti i media, A chi gli chiedeva che fine avrebbero fatto i suoi saggi, nel caso in cui la ricerca del futuro avesse sconfessato la sua teoria della ideologia tripartita degli Indoeuropei, il famoso storico delle religioni francese Georges Dumézil, che su quella teoria aveva edificato tutta la sua analisi dei miti e delle strutture sociali delle società antiche, rispondeva: “Semplice, basterebbe spostarli dalla sezione della saggistica a quella della fiction”. Per fortuna del suo autore, I libri di Dumézil possono trovare comodamente posto ancora oggi nel settore della saggistica, mentre sono al contrario i libri dei suoi detrattori ad essere via via scomparsi dai cataloghi delle più prestigiose collane editoriali. Chissà se Marc Prensky, a distanza di soli vent’anni dalla teorizzazione sui cosiddetti nativi digitali, potrà vantare una fortuna analoga; oggi che numerose indagini di pedagogia sperimentale hanno sconfessato ciò che molti, senza il conforto di indagini evidence-based, già al tempo, nel 2001, avevano intuito. Infatti, con buone probabilità, questo scrittore statunitense (e consulente per il mondo della formazione, come ama presentarsi egli stesso sul suo sito personale) potrà vantare unicamente di aver coniato un’espressione che riscuote grande fortuna ancora oggi negli articoli sul mondo della scuola, perché per il resto la validità euristica delle sue speculazioni mostra già da tempo crepe da ogni parte.
La vera indagine storica deve concludersi da dove ha preso le mosse: Avranno forse tirato un sospiro di sollievo i molti insegnanti, studiosi e personaggi del mondo della cultura italiana, firmatari dell’appello per il ripristino della storia nell’Esame di Stato, al recente annuncio del ministro Fioramonti: tornerà la storia e la sua presenza, all’interno delle tipologie di prova scritta dell’esame, sarà obbligatoria. Anche noi che scriviamo potremmo ritenerci soddisfatti, stante lo stato penoso della conoscenza storica in questo Paese (come abbiamo riportato in un precedente post di questo blog), se non fosse che mai abbiamo abbracciato la tesi di quanti pensano che lo studio della storia si possa riformare con un “ritorno al passato” (è proprio il caso di dirlo). L’analisi che avevamo fatto in quel post dei risultati fortemente negativi di due ricerche svolte sul tema “Italiani e conoscenza della storia”, infatti, ci aveva spinto a chiederci, senza fornire una risposta, a chi o cosa attribuirne le responsabilità. Raramente fenomeni così complessi, quali sono quelli che riguardano le carenze di apprendimento registrate in un ambito specifico del sapere, possono concludersi con l'individuazione di un solo responsabile; tuttavia, sembra ovvio chiedersi adesso che gli studenti potranno tornare a “non scegliere” la traccia di storia (poiché ciò appariva dalle statistiche sulle preferenze dei ragazzi nella scelta della tipologia di prova scritta all'esame di stato) se e fino a che punto l'insegnamento della storia, così come viene svolto nei vari ordini e gradi del nostro sistema di istruzione, abbia parte nel determinare questo risultato. La risposta a questo interrogativo appare poi tanto più urgente quanto più le indagini che a giugno abbiamo preso in esame, in particolar modo quella di Eugenio e Pietro Garibaldi, denunciano come studenti universitari che hanno terminato da poco i percorsi liceali con successo raggiungono in media, in un semplice timeline test, risultati ampiamente insufficienti.
Detto ciò, come si insegna allora storia in Italia? Difficile avere un quadro generale che sia supportato da un’analisi rigorosa; anche perché dovremmo stabilire allo stesso tempo se esiste un metodo di osservazione dell’attività didattica in aula in grado di restituirci dati comparabili tra loro. Tuttavia, se qualcuno volesse cimentarsi in un’indagine di questo genere, non sarebbe male partire non dalla coda, bensì dalla testa del fenomeno: fuor di metafora, non dall’osservazione di come si insegna storia nelle scuole, ma di come viene insegnata nelle università, lì dove i futuri insegnanti di storia si immagina vengano preparati alla loro futura professione: sia essa di storici che di insegnanti di storia (o di entrambe). Se si ritiene infatti che si insegna come ci è stato insegnato, allora non dovrebbe apparire fuori luogo chiedersi quale sia il modello di didattica della storia che viene proposto in ambito universitario dagli storici di professione. Una domanda che in Italia potrebbe infastidire molti accademici; incluse penne di un certo prestigio, qual è la firma dell’illustre accademico dei Lincei e storico dell’arte, Salvatore Settis. Egli, infatti, in un articolo uscito l’anno scorso, ha dato prova di quella che è un’idea sfortunatamente non relegata soltanto tra le inclite aule dell’università italiana, ma anzi proprio da lì diffusa a valle verso le scalcinate aule della scuola dell’obbligo. La sua furia iconoclasta contro quello che egli definiva il modello di “scuola renziana”, lo portò in quella sede ad operare una curiosa separazione tra disciplina e didattica, sminuendo la seconda come una sorta di uggia da pedagogisti, così che preoccuparsi del come si insegna, piuttosto che del cosa si insegna, avrebbe il potere di “infettare” (sic) la mente di molti poveri insegnanti, inclusa a questo punto anche quella dello scrivente (le argomentazioni di Settis sono state facilmente smontate da due docenti universitari, cfr. http://www.laricerca.loescher.it/istruzione/1708-i-contenuti-e-il-contatto.html). Niente educazione civica a scuola, C'è un libro di scuola che conservo intatto dai tempi del liceo, nonostante siano passati più di vent'anni: è il libro di educazione civica. Ancora oggi appare perfettamente integro: né una pagina spaginata né un'orecchia su una pagina. Forse ce lo fece acquistare la professoressa di storia del biennio, oppure il professore di storia e filosofia del triennio, per poi non utilizzarlo mai. Ne sono quasi certo, perché ricordo precisamente il giorno in cui all'università, in tempi in cui compulsare Wikipedia non era possibile, al fine di rileggermi alcuni articoli della Costituzione citati nel manuale di storia contemporanea che stavo studiando, lo liberai finalmente dall'involucro di cellophane che lo teneva prigioniero. Sia chiaro, di tale prigionia non ne faccio una colpa ai miei insegnanti di allora, peraltro professionisti molto scrupolosi e preparati. Sicuramente, - posso dirlo solo oggi che a rivestire quel ruolo ingrato ci sono io -, presi da quella malattia che contagia ancora il corpo docente italiano, ovvero l'idea di dover insegnare "tutta la storia" possibile, ingozzandosi e ingozzando gli alunni con palate di date e nozioni, avranno pensato di dover sacrificare qualcosa: e questa scelta ingrata sarà ricaduta sulla povera educazione civica.
Questi ricordi probabilmente riaffioreranno quasi simili nella memoria di molti miei coetanei, in questi giorni in cui a scuola si attende il pronunciamento del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, in merito all'avvio nel corrente anno scolastico della sperimentazione della nuova Educazione Civica. Si tratta di un'attesa che molti insegnanti vivono con ansia e terrore, perché, com'è d'uso sin dall'alba della nostra repubblica, anche le migliori intenzioni possono partorire mostri, una volta uscite dalle inclite stanze di viale Trastevere e pompate lungo le arterie ostruite delle scuole italiane. |
BENVENUTI!Mi chiamo Eros Grossi. Dal 2004 sono un insegnante di Lettere presso i licei di Roma e provincia. Questo è il mio blog: nato per condividere fuori dall'aula il lavoro che svolgo tutti i giorni in classe. Archivi
Ottobre 2022
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